venerdì 22 maggio 2015

You never get caught in the rain - Placebo - Arena di Verona 20.05.2015

No, alla fine non ha piovuto.
Penso sia stato uno dei loro concerti più belli, tra quelli che ho visto.
 













 

Setlist:

B3
For What It's Worth
Loud Like Love
Every You Every Me
Scene of the Crime
A Million Little Pieces
Black-Eyed
Twenty Years
Too Many Friends
Special Needs
One of a Kind
Space Monkey
Exit Wounds
Meds
Song to Say Goodbye
Special K
The Bitter End


Encore:

Teenage Angst
Running Up That Hill (A Deal with God)
(Kate Bush cover)
Post Blue
Infra-red


 

mercoledì 18 febbraio 2015

Pure Morning

 
Parole strozzate in gola.
Tanto per cambiare.
Cosa c'è che non va?
Cosa cazzo c'è, adesso, che non va?!
Se solo lo specchio la smettesse di urlarmi addosso.
Non c'è niente che non va.
Davvero.
Sorriso di plastica.
Banale quanto le parole per dirlo.
Le parole sono solo parole.
Non possono nulla.
Sono solo segni su uno schermo.
Segnali acustici in mezzo ad altri segnali acustici.
Rumore su altro rumore.
Interferenze nel pensiero.
Quello che dico non sarà mai quello che penso.
Per quanto mi sforzi di essere fedele.
Mancheranno sempre i colori.
C'è qualcosa che si perde nel passaggio e comincio a credere che sia il senso.
Mattina.
Cammino veloce per strada.
Non sono in ritardo, ma è più forte di me, non riesco ad andare lenta.
Sono minuti preziosi comunque, quelli che guadagno arrivando presto dove devo arrivare.
Ma è veramente così o è solo un altro degli schemi mentali che ci vengono imposti nel corso di lunghi anni di addestramento all'uniformità?
L'illusione di avere più tempo.
Ma più tempo per cosa?
Quando la maggior parte delle tue energie vitali, mentali e creative viene risucchiata dall'insensato meccanismo di necessità fittizie in cui comunque sei finito incastrato.
Quando la parte viva del tuo tempo viene sacrificata sull'altare di un contesto che esige fette sempre più grosse della tua esistenza.
Quando il tempo che ti rimane è stato sistematicamente prosciugato di ogni potenzialità.
Decidi che è troppo.
Butti tutto all'aria.
Dai fuoco a tutto e ricominci da capo.
Ma quanto vantaggio puoi guadagnare prima che ti raggiunga di nuovo la schiacciante sensazione di una mancanza di senso?
Poco.
Sempre troppo poco.
Non c'è una reale via di fuga.
Ci dev'essere, da qualche parte, un modo per far quadrare il tutto.
Un modo per avere una visione d'insieme e, soprattutto un modo per capirla.
Ci dev'essere per forza.
Solo non l'ho ancora trovato.
Retrogusto di caffè.
Radio in sottofondo.
Luce che filtra dalle tende.
Non ha ancora deciso che tipo di giornata vuole essere.
Sole che, quando esce, promette già primavera ma non ha ancora voglia di impegnarsi seriamente.
Un calendario buffo appeso alla parete.
Un poster della mostra del 2009 su De Andrè.
Qualche citazione ricopiata e appiccicata.
Appunti.
Promemoria.
Roba di lavoro.
Pareti gialle.
Sfondo del desktop con un'immagine di Assassins Creed.
Non posso restare ferma a guardare davanti a me perché viene interpretato come un invito alla chiacchiera e mi viene riversato addosso qualcosa di cui non mi frega assolutamente un cazzo.
Annuisco.
Sono in una bolla.
Le voci mi arrivano ovattate.
E' tutto lontano.
Irreale.
Non finisce mai di sconvolgermi la naturalezza con cui la maggior parte delle persone infligge agli altri la propria esistenza.
Un continuo riversare sugli altri le proprie miserie quotidiane.
Qualcosa ti ha fatto credere che io avessi voglia di ascoltare il resoconto della tua serata?
E, se sì, cosa?
Biglietti colorati.
Telefono che squilla.
Certo.
Grazie.
Arrivederci.
Pensiero altrove.
Dev'esserci una chiave di lettura.
Ad un certo punto devo essermi distratta.
Dev' essermi persa qualcosa di fondamentale.
Smettila di guardarmi.
Davvero.
Non c'è niente che non va.



giovedì 29 gennaio 2015

Grew Up at Midnight

 

Sono ancora qui.

Immobile.

In attesa di un segnale che, ora lo so, non arriverà mai.

Orgoglio.

Stupidità.

Entrambe le cose.

O forse solo l'idiota voracità di un tempo che inghiotte compulsivamente porzioni sempre più grosse di possibilità.

Mi concedo un ultimo tentativo. Di raggiungerti.

Me lo concedo di nascosto da tutti. Soprattutto di nascosto dai miei occhi. Altrimenti so che non potrei più guardare il loro riflesso nello specchio.

Le riserve di odio, rabbia, rancore sono sempre più esigue e la loro forza sta scomparendo. Ancora un poco. Se scavo ancora un poco, la superficie si spaccherà e mi troverò davanti l'enorme vuoto della tua assenza.

Posso scriverti. Il tuo indirizzo e-mail è sempre lì.

Posso chiamarti. Il tuo numero è sempre al suo posto nell'alfabeto del mio telefono.

Ma l'unica cosa che riesco a fare è lanciare una manciata di parole sconnesse nel caos dell'etere, sapendo perfettamente che le probabilità che ti arrivino sono davvero infinitesimali.

Potrei urlare che mi manchi. Potrei gridare il tuo nome fino a farmi sanguinare la voce. Forse sarebbe più facile che mi sentissi.

Ma poi mi dico che non devo barare.

In qualche modo mi troverai.

L'unica cosa che mi è concessa è scrivere tutte le notti.

Sempre da mezzanotte alle due, in quel territorio sospeso di desideri troppo vicini e confessioni troppo oneste in cui abbiamo coltivato quell'essere fragile che assomigliava tanto ad un noi.

Un essere cresciuto di notte e che di notte si credeva invincibile.

Una creatura cresciuta di notte, quando si ha l'illusione che la sincerità non abbia un prezzo.

Una creatura cresciuta di notte, che non è sopravvissuta alla prima luce dell'alba.

mercoledì 28 gennaio 2015

You're the monkey I got on my back that tells me to shine



Monkey - Ti rendi vagamente conto che siamo alla fine di gennaio?

Me - E quindi?


Monkey - E quindi potevi aspettare ancora un po' per farti sentire...

Me - No. In effetti no. Non mi andava di aspettare ancora.

Monkey - Tu e l'ironia - due realtà incompatibili.

Me - Ho sempre pensato che l'ironia dovesse essere sottile per essere tale.

Monkey - Stai per caso cercando di cambiare argomento?

Me - Perché, c'è un argomento? Non mi pare di vedere un vero argomento qua sopra almeno dalla scorsa estate. E con le dovute riserve.

Monkey - Puoi anche levarti questo tono risentito. Non sono io che ci scrivo, qua sopra.

Me - Ultimamente neanch'io.

Monkey - L'avevo notato.

Me - -----

Monkey - ...quindi?

Me - Quindi che?

Monkey - Cosa intendi fare?

Me - In che senso?

Monkey - Cosa intendi fare qui sopra. Sei qui? Non sei qui? Cosa stiamo facendo?

Me - Non lo so. Non l'ho mai saputo fin dall'inizio.

Monkey - Bugiarda.

Me - Cosa?

Monkey - Sei una bugiarda. Patologicamente e pateticamente bugiarda.

Me - Come ti permetti? E poi tu che ne sai? Sei solo una scimmia del cazzo.

Monkey - So esattamente quello che sai anche tu. E quindi so più di quanto ti piaccia ammettere di sapere.

Me - Non so di cosa parli.

Monkey - Sì che lo sai.

Me - No.

Monkey - Possiamo cercare di avere un approccio un po' più costruttivo?

Me - E quindi?

Monkey - E quindi non è vero che all'inizio non sapevi cosa stavi facendo. Lo sapevi perfettamente. Come sapevi quali erano i motivi che ti hanno spinto ad aprirlo, questo posto. E non mi rispondere Brian perché ti sparo affanculo anche se sono solo una scimmia.

Me - -----

Monkey - Ohi....

Me - ------

Monkey - Ci sei ancora?

Me - Dove vuoi che vada.

Monkey - Non lo so.

Me - Ma checcazzo...io non conoscerò il significato di ironia ma tu e le domande retoriche non siete messi poi tanto meglio eh.

Monkey - Lo stai facendo di nuovo.

Me - Cosa?

Monkey - Cerchi di svignartela.

Me - Non sono mica Gollum.

Monkey - No, certo. Il pesce crudo lo mangi con le bacchette.

Me - Poi sarei io quella che va fuori tema...

Monkey - Stiamo facendo addormentare tutti...

Me - Non è colpa nostra. E' tardi. E comunque al massimo è colpa tua che mi hai distratto con i tuoi rimproveri e mi hai bloccato l'inizio.

Monkey - Oh, certo. In realtà a me sembrava che stessi ciondolando sulla tastiera guardando qua là con un'espressione vacua, ma sicuramente mi sbaglio.

Me - Mi pare ovvio.

Monkey - Allora scusa. Come non detto. Fai conto che io non ci sia e ricomincia da capo. Vai col tuo inizio.

Me - -----

Monkey - Allora?

Me - Se fai così mi viene l'ansia da prestazione.

Monkey - Balle.

Me - Non sono balle!

Monkey - La realtà è che ti servo.

Me - E per cosa, se è lecito?

Monkey - Per parlare. Se non ci sono io a tirarti fuori le cose rimani lì a rimuginare senza concludere un tubo. Vuoi un consiglio?

Me - No. Ma immagino che tu me lo darai lo stesso.

Monkey - Ovvio. E il mio consiglio è: tienimi.

Me - Tenerti?

Monkey - Sulle tue spalle. Tanto sono leggera.

Me - Mah, su quello avrei qualcosa da ridire.

Monkey - E poi non mi devi dare da mangiare e sporco meno del gatto.

Me - Lascia stare il gatto.

Monkey - Era per dire.

Me - -----


Monkey - Allora?

Me - Però nel letto non ci dormi.

Monkey - E vabbè...

Me - Bene. Da dove cominciamo?

Monkey - Ormai è tardi per mettersi a parlare di chissà che. Potresti cominciare con le basi.

Me - E cioè?

Monkey - Potresti darmi un nome. Dato che starò in giro da queste parti per un po'...

Me - Perché? Non ce l'hai un nome?

Monkey - No. Sono la TUA scimmia...

Me - Ah. Ok. Frances. Ti piace?

Monkey - Come Frances McDormand?

Me - Ma come cazzo fai ad essere la mia scimmia e ad essere così ignorante? Al massimo come Frances Farmer.

Monkey - Mi piace.

Me - Cerca di non farmi dei casini.

Frances - E tu cerca di scrivere. E magari ogni tanto di finire anche quello che cominci...

Me - non si era detto che è tardi per cominciare a parlare seriamente di qualcosa?

Frances - Ok. Ma non credere di far passare un altro mese. Tanto io non me ne vado da qui.


Più di un mese di assenza e adesso questo? Sì, questo. Non so cosa farci. Per i reclami rivolgersi a Frances.




mercoledì 17 dicembre 2014

There's a room where the light won't find you


 
Sì. C'è sempre meno un filo logico.
No. Non ho la più vaga idea di dove far andare questo posto. Nel caso non si fosse capito.
Un po' va avanti da solo, per inerzia. Forse la visione d'insieme arriverà poi. Dopo. Da sola. Boh.
Non mi va di lasciarlo, questo posto. Non mi va di classificarlo. Mi dà fastidio sentirlo alla deriva perché mi manca una rassicurante sensazione di controllo. Per dire, io mica avevo idea che avrei scritto queste cose.
Ma alla fine era nato per questo. No? Per il random. Per le cose senza categoria. Riportare all'ordine. Ma anche no.
Spazi di libertà che in realtà è solo presunta tale. Illusoria, come tutto il resto.
Devo fare altro. Non stare a scrivere qui sopra. O forse dovrei scriverci di più. Magari mi farebbe bene. E costa sicuramente meno di un terapista e dello Xanax.
L'immagine che si trasmette è sempre irrimediabilmente distorta. Frammentaria. Incompleta. Arrivano solo dei pezzi. I più pesanti. Sicuramente non i migliori. La faccenda che sopravvive solo ciò che merita la sopravvivenza, che il tempo è giudice di ciò che deve durare. Ecco, non è questa gran cosa. E' un po' una stronzata. O quanto meno una presa per il culo. Sopravvive ciò che è abbastanza forte, il che nella maggior parte dei casi è ben lontano dall'essere ciò che più lo merita. La capacità di sopravvivenza è grandemente sopravvalutata, quanto meno in termini etici.
Non lo so. E' la cosa che ripeto più spesso da un po' di anni a questa parte. Non lo so. E' veramente la cosa più vicina ad una risposta universale che abbia mai trovato.


giovedì 4 dicembre 2014

I keep falling



Sono così stanca di essere sempre io.

Non mi sopporto più.

Io ho degli enormi, giganteschi, colossali problemi con gli inizi. Li amo per le infinite potenzialità che ovviamente implicano. Li odio perché nella maggior parte dei casi sono una colossale presa per il culo.


Ci viene detto che è possibile ricominciare.


E' possibile ricominciare il cazzo.


Si possono cambiare un sacco di cose. Casa, lavoro, frequentazioni, nazione, lingua, numero di telefono, abbigliamento, personalità.


Ma tanto ci saranno sempre quei cinque-dieci minuti prima di addormentarsi.

E se uno non dorme, saranno i cinque-dieci minuti in cui ti trovi seduto ad una fermata, o su un treno che ti sta portando da qualche parte. I momenti vuoti. Le crepe sulla superficie dell'ininterrotta sequenza di attività. Gli interstizi. Le fessure nel tempo lineare. Gli spazi bianchi a margine sono un territorio di competenza del passato e per quanto si cerchi di strapparne pezzi sempre più grossi non si può cancellare del tutto.


E quindi diventa solo l'ennesima recita. Una bella facciata nuova, nuovi propositi, nuove attività ma tanto ci sono sempre quei cazzo di cinque-dieci minuti in cui un ricordo ti salterà addosso a tradimento chiedendoti chi cazzo pensi di prendere in giro con la tua ridicola pantomima. Si possono ingannare gli altri, è vero. Ma non possiamo mai davvero ingannare noi stessi. Possiamo provarci ed essere anche molto credibili. Ma prima o poi tutto crolla. E non conta un cazzo quello che hai costruito intorno a quei cinque-dieci minuti. Per nasconderli. Per arginarli. Basta un secondo. Basta un ricordo. Basta l'odore di un detersivo o una certa inclinazione della luce e tutto se ne va allegramente affanculo.


Non si può ricominciare.


Si può accettare. Si può superare. Si può scegliere di non essere o non fare più qualcosa. Ma non si può cancellare niente. Il peso dei ricordi non può essere alleviato.


Il peso della costante, lucida consapevolezza di sé.


L'ombra di tutto ciò che si è stati e di tutto ciò che si è fatto ti grava costantemente sul petto finché semplicemente l'aria non passa più.


E non importa di che natura siano i ricordi. La bellezza ti salva e ti uccide come tutto il resto.

Non c'è niente. Non cambia niente.

Ossessione del controllo. Anche quella ha la sua parte.


L'illusione di ricominciare implica infinite potenzialità. E' una tavola bianca. Una stanza vuota. Ti permette di dire questa volta farò le cose in ordine. Questa volta non farò cazzate. Sarà tutto al posto giusto nel momento giusto.


L'illusione di ricominciare ha una potenza spesso sottovalutata.


Creati un personaggio. Attribuiscigli delle caratteristiche. Sii coerente con i tratti che hai assegnato. Tutto qui. Attieniti al copione. Resta sulle pagine. Non fare cose che stonerebbero con il contesto. Non improvvisare. Non pensare al senso che può avere. Resta concentrato sulla parte. Asseconda le esigenze sceniche. Fornisci il giusto apporto alle situazioni.


Sei parte di una storia. La tua storia. Sei il protagonista. Devi per forza piacere a tutti. E devi fare quello che ci si aspetta che tu faccia in base alle tue caratteristiche. Non piangere se sei un personaggio positivo. Non piangere. Non chiederti chi cazzo ha scritto un copione così di merda. Non stare a pensare che il finale non quadra. Che ci sono dei buchi di trama grossi come voragini.


L'illusione di ricominciare si nutre di lunghi periodi in cui la si rende reale. In cui ci si convince che sia davvero possibile.


Dopo il presunto nuovo inizio si autoalimenta per un periodo di tempo che varia a seconda dell'esperienza del soggetto con questo genere di pratica. Più volte hai tentato di ricominciare e più debole sarà l'illusione. Il suo periodo di sopravvivenza sarà sempre più breve e sempre più sottile. Sempre più trasparente. Una tenda lisa che a lungo andare non riesce più a nascondere quello che c'è dietro.


Ognuno ha i suoi modi di raccontarsi stronzate.


Il mio è l'illusione di poter ricominciare.


mercoledì 29 ottobre 2014

I BELONG TO YOU - CAP. IV - INCOMING CALL


Gravity, no escapin' gravity
Gravity, no escapin', not for free
I fall down, hit the ground
Make a heavy sound
Every time you seem to come around

Placebo, Special K
 

- No Brian, scordatelo.
- Ma perché?
- Perché sono la tua manager, non la tua segretaria. Perché è una questione personale. Perché non sono nella posizione di poter chiamare il frontman di una band che non gestisco io e per almeno un'altra ventina di motivazioni che sai perfettamente anche tu anche se adesso stai facendo la star capricciosa.
- Ma cosa ti costa, è solo una telefonata...me lo fai come favore personale...mmmh?
- Brian...
- Eh...
- Come hai appena detto tu, è solo una telefonata. E se proprio vuoi che ti dica la verità, per quel poco che ci ho avuto a che fare, Bellamy è tutt'altro che antipatico.
- Immagino.
- Ma si può sapere cosa ti ha fatto per starti tanto sui coglioni?
- E da quando qualcuno deve aver fatto qualcosa per stare sui coglioni a Brian?
Stef rientra in soggiorno reggendo due tazze di caffè e ne allunga una a Brian e una ad Alex, voltandosi poi per rientrare in cucina a prenderne una anche per sé.

domenica 19 ottobre 2014

I BELONG TO YOU - CAP. III - BIRTHDAY MAN


One last thing before I shuffle off the planet
And I will be the one to make you crawl
So I came down to wish you an unhappy birthday
Someone call the ambulance, theres gonna be an accident.


Placebo, Infra Red
 
 
6 MESI PRIMA

Brian apre la porta del suo appartamento e viene investito da una musica che gli ricorderebbe qualcosa se non fosse così alta da stordirlo.
Chiude la porta e segue il frastuono fino alla camera di Cody, dove suo figlio è alle prese con una chitarra elettrica - fortunatamente scollegata da qualsiasi amplificatore - sulla quale cerca di riprodurre le note della canzone che sta andando a tutto volume nello stereo e che Brian finalmente riconosce come Plug In Baby dei Muse.
Ad incoraggiare Cody, e a supportarlo con l'esibizione di dubbie doti canore, Audrey, una ragazza di circa diciassette anni, babysitter improvvisata a causa di un imprevisto, nipote di Helena e proprietaria del cd.
Quando Cody si accorge del padre, molla la chitarra e si precipita saltellante verso di lui che cerca di non soffermarsi sul fatto che la soddisfazione di vedere suo figlio con in mano una chitarra è decisamente offuscata dal fatto che stesse cercando di suonare una roba di quella specie di sorcio con manie di grandezza.
Audrey nel frattempo scatta in piedi e si precipita a spegnere lo stereo, salutando Brian con aria vagamente imbarazzata.
 

mercoledì 1 ottobre 2014

I BELONG TO YOU - CAP. II - SUICIDE BLONDE



Walk away to save your face
You never were a genius
Walk away to save your face
You let it come between us

Placebo, Second Sight

 
 
15 GIORNI PRIMA

Brian, ciao, sono Dominic. Avrei bisogno di parlarti. Possiamo vederci?
Brian rimane a fissare il display del cellulare anche dopo che questo si è spento da un po'. La voce di Stef lo raggiunge ma è troppo lontana perché possa capire cosa sta dicendo.

Spinge la porta a vetri ed entra. Gli basta meno di un secondo per individuare il batterista dei Muse seduto nell'angolo più remoto del locale. Cazzo, aveva rimosso il fatto che quell'imbecille si è tinto i capelli di biondo platino. Praticamente fa luce.


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venerdì 19 settembre 2014

I BELONG TO YOU - CAP. I - APPLE PIE


Farewell the ashtray girl
Angelic fruitcake
Beware this troubled world
Control your intake


Placebo, This Picture
 
- Perché ieri non mi hai risposto? Perché non ti sei fatto sentire tutto il giorno?
- Perché volevo vedere come avresti reagito.
- Quanto sei troia.
- Una volta lo avrei preso come un complimento.
- Davvero. Perché non mi hai chiamato?
Silenzio. Occhi piantati in un avanzo di torta di mele.
- Perché volevo vedere come avrei reagito. Perché non mi ricordo più come si passa una giornata senza sentirti. Perché volevo avere un'idea di quanto farà male quando finirà.

Per la prima volta da quando si frequentano, Matt rimane in silenzio. Ammutolito.
Brian ha parlato con tono calmo, come sempre. E ora sembra aver ripreso interesse per la seconda metà della sua fetta di torta, come se gli avesse semplicemente comunicato dove pensava di andare in vacanza.
Dopo un paio di tentativi a vuoto la sua voce decide di rifarsi viva.
- Perché pensi che finirà?
Sa che è una domanda del cazzo. Lo sa perfettamente, ma non può fare a meno di farla ad alta voce.
Brian alza lo sguardo.
 

lunedì 8 settembre 2014

Always comes back for more


 
And now I'm coming back. For more. More what? I do not have the slightest idea. Obviously.
I know that I don't want to let this place down because I realized that I get used to it and I love it, in some way. Even if it doesn't have a real shape. Even if I haven't understood yet what kind of direction I'd like to give it.
I'm back.
Even if during these weeks I was afraid that I have nothing left to say here.
Maybe one day I'll find out.
Maybe one day I'll get the big picture.
Or maybe not.
That is what is called a plan. Yay.


venerdì 25 luglio 2014

Raising the temperature one hundred degrees - Placebo - City Sound - Milano - 22-07-2014

Arrivo in una Milano da poco innaffiata dall'ennesima pioggia di questi giorni. Pagina del meteo sempre rigorosamente a portata di mano, non perché effettivamente serva a qualcosa ma perché così poi ci si può lamentare quando non ci azzecca.

La prima cosa che faccio, uscita dalla stazione, è sbagliare metropolitana. Ovviamente. Certe volte sono così prevedibile nelle minchiate che faccio che mi annoio da sola. Comunque non ho sbagliato di molto. E' colpa della linea Rossa che si biforca. Se non altro me ne sono accorta in tempo prima di finire a Bisceglie.

Scendo alla fermata di cambio e appena metto piede sulla banchina sento uno squittio. Mi volto e vedo due ragazze che adocchiano la mia Placebo-Borsa con scritta Loud Like Love individuabile dal satellite.

"Scusa, vai a un concerto?"

"Perché? Si nota?"

Sono in perfetto anonimato.


Sul treno gli squittii riprendono.


Hanno notato il mio zaino dei Muse o la mia canottiera Mollamy?

La risposta arriva quasi immediatamente quando colgo uno stralcio di conversazione: "...ma c'è gente che non shippa Molsdal!"

Io sorrido come una cretina al tabellone delle fermate e intanto penso: "c'è gente che shippa ancora Molsdal!"


Rapida tappa in albergo per mollare lo zaino - che insieme alla borsa mi rende un baluardo vivente del Mollamy più ancora della maglietta - e poi mi preparo psicologicamente alla giornata.


Raggiungo via Diomede 1, l'ingresso dell'Ippodromo e, come prima cosa, mi concedo cinque minuti di autocompiacimento perché l'albergo è veramente attaccato. Suppongo che il fatto di averlo prenotato a febbraio abbia giovato in termini di disponibilità delle strutture, ma è un dato di fatto che quando c'è il Molko di mezzo io sono sempre patologicamente innaturalmente in anticipo su tutto.




Davanti all'ingresso c'è già un gruppetto di persone accampate. I primissimi sono stati numerati dal tizio dello staff che staziona davanti alla porta, ma quando arrivo l'iniziativa è già naufragata.


Le persone che conosco e che incontro solo in queste circostanze, come se quella della Coda-Per-La-Transenna fosse una dimensione parallela a sé stante.

Sono le 10.30 del mattino. Le prime porte apriranno alle 16. I cancelli alle 19.

E' lunga, ma non fa caldo e - a parte qualche timida gocciolina per un paio di volte nel corso della mattinata - non piove neanche e, se ripenso alle sette ore sotto l'acqua di novembre, questa si preannuncia una scampagnata. Ci si può addirittura sedere per terra. [Che poi undici ore seduta sulle pietre non siano esattamente una cosa positiva - come testimonia il dolore sordo delle mie povere chiappe mentre scrivo seduta sui gradini del Duomo - è un altro discorso, ma pazienza].

Le chiacchiere casuali. Le ff lette ad alta voce.

L'avvicinarsi della prima apertura comincia a far emergere tutta una serie di pecche di organizzazione sulle quali ci sarebbe da scrivere un post a parte e che purtroppo accomunano un po' tutti gli eventi organizzati in Italia.

Per dire. Sapevano perfettamente che si sarebbe formata coda fin dal mattino. Cosa costava piazzare due accidenti di transenne? Evidentemente troppo. Il risultato è che gente arrivata alle tre del pomeriggio si è ammassata all'entrata esattamente come chi era lì dal mattino.

Ora. Personalmente queste dinamiche non mi turbano più di tanto. Le noto ma le metto in conto come un fattore fisiologico e inevitabile correlato a questo tipo di eventi. Io vado lì presto, faccio quel che posso per arrivare davanti, è ovvio, ma fa tutto parte del gioco.

Non so, non mi viene da incazzarmi. Tanto più che, una volta entrati, si deve correre per arrivare al secondo cancello e quindi, inevitabilmente l'ordine di arrivo se ne va a farsi fottere. Ad ogni modo, già qui si alzano i toni. Qualche urlo e qualche insulto che vola.

Entriamo. Corsa. Breve, per fortuna.

Riesco a piazzarmi più che dignitosamente anche se stavolta l'accampamento è meno agevole e siamo praticamente ammucchiati più che seduti. 





Sono le 4.30 e dobbiamo rimanere qui per poco meno di tre ore. Amen. Un po' di polemiche. Un po' di crampi. Chi saltella sul posto perché non sa come sgranchirsi. Chi si annoda in strane configurazioni con perfetti sconosciuti pur di distendere le gambe per cinque minuti. Adesso fa caldo e, quando sento due ragazzi alle mie spalle discutere di Berlusconi realizzo che il livello di sclero si sta considerevolmente alzando.


Ad un certo punto un tizio della security ha la malaugurata idea di chiedere ad una ragazza davanti di fargli vedere il biglietto e istantaneamente tutti si alzano e si accalcano ravanado nelle borse per sfoderare il proprio biglietto. Il suddetto tizio della security si incazza per la bovina reattività della massa ma ormai è fatta. Non mi ricordo se qualcuno ha provato a risedersi ma, in ogni caso, di lì a poco siamo tutti in piedi e accalcati.

Le sette si avvicinano, arrivano e passano.

Altro tocco di professionalità dell'organizzazione: lo sbarramento è costituito da una transenna a nastro di quelle bianche e rosse. Dietro ci sono due ingressi dove dovrebbero essere controllati i biglietti. Dopo segue la polizia per le borse.

Arriva un tizio dell'Ippodromo e chiede attenzione. Il succo della comunicazione è: adesso apriamo. Procedete con ordine e non correte che tanto non serve a niente e poi scivolate.

*Inserire emoticon a piacere che esprimano pietosa condiscendenza per il tizio*

Aprono e il primo security-man, per quanto grosso, viene pressoché travolto. Comincia a gridare stop stop stop. Due gruppetti sono già passati a destra e a sinistra. Io sono sulla destra proprio al limite delle persone fermate. Esito per due secondi poi mi fiondo avanti lo stesso. Il tizio inevitabilmente mi nota e si incazza. Mi urla che ha detto stop. Io spalanco gli occhi, faccio flap flap con le ciglia e ostento l'aria più innocente che mi riesce mentre, puntando il dito verso la schiena di due ragazzi entrati poco prima e mai visti in vita mia, dico con vocina flebile "ma...sono con loro...".

Probabilmente mi sono guadagnata l'odio di un discreto quantitativo di persone ma sono piuttosto convinta che siano le stesse persone che al mio posto avrebbero fatto anche di peggio, ergo non mi strappo i capelli per la disperazione.

Biglietto. Sì. Mi piacerebbe. Il tale che dovrebbe controllarmelo si sta praticamente menando con un ragazzo.

Da quel che ho capito il ragazzo deve essere avanzato in modo forse un po' troppo propositivo e l'altro deve averlo fermato bloccandolo magari con la mano, dal che "toglimi le mani di dosso" "no, tu toglimi le mani di dosso". Insomma, aspiranti maschi alfa in azione.

Nel frattempo. Un tot di gente entra a cazzo senza far controllare il biglietto.

Arrivano altri addetti. Io protendo il mio sperando che non me lo massacrino strappandolo male perché è il fan-ticket ed è effettivamente molto figo. Non me lo strappano proprio. Lo guardano e mi dicono sì sì mentre tra loro commentano "non ne abbiamo controllati un sacco...".

Polizia. Il povero poliziotto sbircia nella Placebo-Borsa, probabilmente si scoraggia e mi dice vai vai con un tono a metà tra il rassegnato e l'incoraggiante che mi fa sorridere.

Bon. Seconda corsa.

Allora. Già con sta faccenda della doppia apertura mi hanno fatto correre due volte e non una. E passi.

Però questa è dannatamente lunga. O meglio. Lunga per un individuo come me che l'ultima volta che ha corso è stata a novembre sempre per la transenna Placebo. Capitemi.

Ad un certo punto della corsa sento che mi si stacca un orecchino. In quella frazione di secondo nella mia mente sono successe le seguenti cose:

- visualizzazione del fotogramma di Velvet Goldmine in cui Brian perde la sciarpa mentre corre e si ferma a raccoglierla. 




- ricordo dell'intervista in cui spiegava di averlo fatto non perché fosse sul copione ma perché è quello che farebbe qualsiasi persona normale.


- standby neuronale

- elaborazione della conclusione "io NON sono una persona normale"

- modalità transenna: ON

In realtà questa volta sono piuttosto decisa a puntare lato Brian, il che vuol dire che la transenna vera e propria è improbabile ma mi basta essere vicina.

Mi spiaccico dietro una famiglia etichettata con il pass di "guest" che è già lì dal pomeriggio e che ovviamente è centratissima. Niente di strano. Capita spessissimo. Se avessi puntato Brian anche a novembre mi sarei trovata dietro Asia Argento e alla fine non mi sarebbe neanche dispiaciuto.

In questo caso non so bene chi fossero questi "guests". Il marito mi ricorda vagamente qualcuno ma non ho idea di chi. Io sono dietro la moglie/compagna che, oltre ad essere simpatica ha anche l'inestimabile pregio di essere bassa.

Vedo veramente benissimo.

Controllo di non aver perso nient'altro nella corsa e mi tranquillizzo perché penso che ormai il più sia fatto. Neanche il tempo di pensarlo e si sentono altre urla.

Ma cazzo, stasera hanno sbroccato tutti quanti?!

Una ragazza di fianco a me è colta da crisi isterica perché il tipo "guest" in transenna è, per l'appunto, in transenna. Ora, capisco che il tale è alto due metri e può effettivamente rompere i coglioni, così davanti, ma l'approccio in lacrime "brutto stronzo tu non puoi stare qui non è giustoooo" non è esattamente il migliore per muoverlo a compassione e farlo spostare.

Polemiche. Insulti. Strilli.

La protesta per la transenna contagia anche qualcun altro con conseguenti tentativi di schiacciamento ed estromissione.

Io sono in modalità "menatevi ma non muovetemi da qui".

Sono sulla pedana della transenna e la persona davanti a me, come dicevo, mi garantisce ottima visibilità.

I puristi della transenna però no. La seconda fila è un onta che va lavata col sangue. Devi aderirci con tutto il corpo alla transenna, sennò non vale.

E vabbè.

I fan degli Slayer sono davvero un sacco più equilibrati. Giuro.

Le solite foto di rito al palco.

Steve che spunta ogni tanto a lato con i tecnici (io mi dimentico sempre che porta gli occhiali).

Brian che spunta anche lui per un momento, con gli occhiali da sole e io e un'altra ragazza che immediatamente cominciamo a pregare divinità a caso perché non si azzardi a tenerli su anche per il concerto. 

Gli occhiali da sole sul palco sono veramente una bastardata, Brian, sappilo.

Brian che fino a poco prima dell'apertura girava sul palco con Cody al seguito.

Fino all'ultimo non si sa nulla di eventuali opener ma alla fine ci sono.

Sono gli L.A. e non sono neanche male. 



Non sono male ma non si può fare a meno di essere contenti quando finiscono e arrivano i tecnici a preparare definitivamente il palco.

Io che rido sempre un casino quando vedo aggiustare il microfono di Stef che è ad un'altezza imbarazzante per il povero tecnico.

I soliti bicchieroni di intruglio sia per Brian che per Stef posizionati ai lati della batteria. 




Il microfono di Brian e, sì, nel caso avessi avuto ancora dei dubbi, è davvero lì davanti.


Vuoto. Buio.

Parte l'intro di B3.

Ci siamo.

Ho la pelle d'oca anche solo a ripensarci mentre scrivo.

La botta di adrenalina quando comincia davvero mentre pensi ormai di essere sfinito dopo undici ore di attesa.

Entra prima Steve. Poi Stef. E Brian che si piazza subito davanti all'ampli con la chitarra. Ma quanto gli piace fare sta cosa? Era sempre lì col culo per aria dopo quasi tutte le canzoni. Non che mi lamenti, per carità, è pure dimagrito un sacco.

Ecco. Qui va detta una cosa. Il fatto che io sia davanti a Brian rende la mia visione del concerto estremamente parziale. Ho già avuto modo di esprimere questa cosa in altre occasioni ma lo ribadisco. Non lo faccio apposta. Se c'è Brian nel mio campo visivo io non riesco fisicamente a guardare qualcos'altro. E' anche seccante per certi versi perché mi perdo dei pezzi. Ogni tanto mi forzavo a voltare la testa verso Stef o ad allungare lo sguardo su Fiona, ma per un buon 95 percento del concerto ho fissato lui.

Brian. Vestito di nero, tanto per cambiare. Fortunatamente senza giacca, visto il caldo. Stivaletti vecchi, quelli che adoro.

Niente trucco sugli occhi, con mio grande disappunto. Ma il disappunto l'ho elaborato in seguito perché sul momento avrebbe potuto anche avere una felpa di Winnie The Pooh e avrei annuito con ammirazione.

La setlist:

1. B3
2. For What It's Worth
3. Loud Like Love
4. Allergic (to Thoughts of Mother Earth)
5. Every You Every Me
6. Scene of the Crime
7. A Million Little Pieces
8. Rob the Bank
9. Too Many Friends
10. Space Monkey
11. One of a Kind
12. Exit Wounds
13. Meds
14. Song to Say Goodbye
15. Special K
16. The Bitter End

Encore:

17. Begin the End
18. Running Up That Hill (Kate Bush cover)
19. Post Blue
20. Infra-red


Bella. Bellissima. La adoro. Se proprio devo fare la fan noiosa posso dire che avrei tanto voluto che facessero anche Sleeping With Ghosts ma non riesco davvero a lamentarmi con convinzione.

Allergic dal vivo è qualcosa che non avrei mai più sperato di sentire.

Sì, avevo visto che l'avevano riesumata nelle date precedenti ma evidentemente non avevo ancora metabolizzato la cosa. Mi rendo conto che mentre la urlavo sembravo probabilmente molto più squilibrata di tutti quelli che poco prima quasi si menavano e ho intravisto un'occhiata preoccupata dalla ragazza a fianco a me, ma non importa. Cazzo. Allergic dal vivo.

Che poi io non mi tolgo il dubbio che certe volte le scelga pescando a sorte perché, sinceramente, non pensavo neanche che si ricordasse di averla scritta.

Every You Every Me come sempre mi causa scompensi spazio-temporali perché per me è davvero troppo legata al mio passato e penso sempre di essere sul punto di disintegrarmi perché non è concepibile che una persona possa sopportare tanti ricordi tutti insieme. Poi l'onda passa e si ritira, come sempre, ma è sempre lei e non perde niente della sua potenza.

A Million Little Pieces mi ha provata più dell'altra volta. Sarà che in questi mesi ho sviluppato con questa canzone un legame ancora più viscerale, non lo so, ma sul secondo ritornello qualche lacrima proprio non posso evitarmela (andando, peraltro, ad aumentare ulteriormente la preoccupazione della ragazza vicina che ormai mi ha definitivamente etichettata come instabile). Questa volta AMLP mi ha fatto proprio un po' male, per motivi di cui sono fin troppo consapevole, ma va bene così perché ne avevo anche bisogno.

One Of A Kind dal vivo è un'altra perla, un'altra che ho sempre adorato per la sua letale onestà.

Su Meds si può apprezzare, come sempre, l'Angolo-dell'ego-di-Brian, quando nella pausa prima dell'ultimo forget si ferma a godersi le urla. Non che il suo ego si tenga altrimenti in disparte, ma qui proprio lo si può vedere fisicamente gonfiarsi e gongolare. Tesoro.

Su Special K fa cantare a noi il coretto. 

Sulla fine di Bitter End arriva un po' di pogo che fino ad ora non si è avvertito nelle prime file, non so se per culo o grazie al tizio grande e grosso alle mie spalle che mi fa da bodyguard, ma tutto sommato me la cavo con uno spostamento laterale.

Prima dell'uscita pre-encore Steve viene avanti per dare le bacchette. 

Ora. Non è una novità. Lo fa sempre. E i loro live seguono più o meno sempre lo stesso schema. Li so a memoria. Peccato che io sia talmente imbambolata a guardare Brian che gioca con la pedaliera che quasi non mi accorgo dell'arrivo di Steve e di conseguenza vengo colta alla sprovvista dall'inevitabile calca che si scatena per afferrare le bacchette. Sono un'idiota. Che poi, quand'è così, manco ci provo a prendere qualcosa. Solo che ad un certo punto mi trovo esattamente in mezzo a due persone che si contendono una delle due bacchette tirando in direzioni opposte mentre un numero imprecisato di altri individui mena botte a destra e a manca. Morale. La bacchetta non l'ho presa ma ho preso un sacco di legnate. Amen. Anche questa è colpa di Brian che mi ha distratta. Ecco.

L'encore riprende con Begin The End e, sebbene sia contenta di averla sentita e sebbene mi piaccia anche parecchio con quel suo ritmo ossessivo (e la chitarra di Brian che si sente per una volta più delle altre), continuo a dire che live non rende. E' troppo lunga. Non fa veramente presa. Poi lui si mette a fare aaaww nel microfono e addio ad ogni velleità critica, ma vabbè.

E poi. 

Poi ci sono i flash. Le immagini che ti restano impresse sulle retine e ti tornano in mente a tradimento.

Brian che sembra aver sviluppato il vezzo di menare pugni alle chitarre battendo il ritmo. Non che sia un gesto esattamente nuovo, ma stasera sembra che gli venga particolarmente spontaneo. Ad un certo punto ho sentito distintamente il rumore della sua mano su non mi ricordo più quale chitarra, nonostante tutto il casino.

Brian che si sposta di lato e un coro di ululati che non mi spiego a cosa siano dovuti, dato che non sta facendo niente di particolare, finché non mi accorgo che c'è Stef inarcato all'indietro al centro del palco che suona come se stesse per sollevarsi da terra in un fascio di luce aliena. Sempre per la serie: le cose che mi perdo per colpa di Brian.

Brian che a un certo punto ci guarda come se si aspettasse davvero qualcosa da noi.

Appunti sparsi. Note per il mantenimento di una soglia minima di sanità mentale:

- Ansimare nel microfono dovrebbe essere illegale. Sentito, Brian? Quello che già normalmente ci fai con quel dannato microfono basta e avanza. Non infierire.

- Stare per più di cinque minuti accucciato sulla pedaliera a fare non si sa bene cosa, mentre in controluce si vede il sudore che gocciola dal viso e dai capelli NON si fa. Che poi uno si trova a pensare di voler essere quella pedaliera e NON è una bella cosa. NON giova all'autostima. Y'know?

Infra-red e Brian che salta per un bel po' di volte in quel suo modo scomodissimo.

I soliti capelli tirati via col mignolo.

Il cut sulla gola su killing time di One Of A Kind e Bitter End.

I giochi con la voce, improvvisati.

I momenti in cui arriva sul bordo del palco.

I ringraziamenti in italiano.

Il momento in cui arrivano tutti davanti per ringraziare e salutare e Brian ha davvero un'espressione soddisfatta. Distrutta, ma soddisfatta.

Fiona che si toglie qualcosa da un occhio.

I sorrisi tra Brian e Stef e i loro sguardi di intesa. 

Il modo in cui Brian cerca Stef. Quello vero, al di là di tutte le fan-minchiate.

Se proprio devo essere pignola, le luci non sono un granché ma penso che sia voluto. Non potendo più tirare giù la tenda delle prime date, viene studiata l'illuminazione più anti-foto possibile. Davvero, i momenti in cui il palco è illuminato bene sono pochissimi e molto brevi.

Una mia amica sostiene che il passo successivo sarà: Fiona, Steve e Nick in prima fila e Brian e Stef collegati in video da casa con inquadratura fissa dalla chitarra in giù. E il problema foto è bell'e risolto.

E, sempre per pignoleria, dovrei dire che la batteria era veramente troppo pompata, tanto che, a volte, soffocava un po' la voce. 

Ma la realtà è che questi sono dettagli che non scalfiscono un concerto effettivamente grandioso, coinvolgente, travolgente dall'inizio alla fine. 











La mattina dopo mi sveglio con un principio di magone. Giro per Milano. Cammino per le strade di una città con la quale ho un rapporto strano ma alla quale, alla fine, voglio bene. Non so se ho chiuso tutti i conti con i miei fantasmi. Non sono sicura di averli allontanati per sempre. So che, in qualche modo, mi ci sono riappacificata. So che posso accettare di vederli tornare o andarsene. Che a volte basta lasciare andare qualcosa, perché smetta di fare male.

Aspetto la consueta post-gig depression ma non credo che arriverà, questa volta. Questa volta è più forte il senso di liberazione. Di sollievo. 

La sensazione di essere in pace col mondo e soprattutto con me stessa. Quella bolla protettiva che impedisce a qualsiasi cosa di toccarti. Di scalfirti.

Quella musica, quella voce, quelle parole urlate nella notte erano esattamente ciò di cui avevo bisogno. Ancora una volta. 


[Tutte le foto (a parte la gif) sono mie. La qualità non sarà ottima ma sono contenta di essere riuscita a farle.]

martedì 24 giugno 2014

My computer thinks I'm gay. - One year later


 
E niente, TMF compie un anno.
Usciva esattamente un anno fa, il 24 giugno 2013.
Erano circa le 10 del mattino e io stavo sclerando attaccata a Studio Brussel per capire se davvero l'avrebbero passata.
E avevo aspettato talmente tanto questo nuovo primo singolo che il momento in cui ho ascoltato per la prima volta quelle note di piano dell'intro è rimasto cristallizzato nella mia memoria.
Così come la prima frase e la considerazione immediatamente successiva..."mi pare che dica My computer thinks I'm gay ma magari sono io che ho capito male eh."
Che poi non è né tra le mie canzoni preferite né una delle loro migliori.
Però le voglio bene per molte ragioni.
E quindi buon compleanno al computer che spamma il Molko :D
 
Per chiunque si stia chiedendo se la proprietaria del blog ha problemi, la risposta è: ovviamente SI'.
#nostalgiaacazzo
#squilibriomentalechesimanifesta


domenica 22 giugno 2014

Being so honest in my writing is cathartic (cit.). Brian, Milano and my last goodbyes.


Apro gli occhi. Mi alzo prima del solito. Prima che la sveglia suoni. Prima che qualcuno mi chiami.
Profumo di caffè, le fusa del gatto, rumori attutiti.
Uno zaino pronto ai piedi del letto. E' piccolo, ma mi serve solo il cambio di una notte e, in ogni caso, so che contiene più di quello che sarebbe strettamente necessario.


Se non si contano due transiti per la Stazione Centrale, l'ultima volta che sono stata a Milano risale al 29-30 settembre dell'altr'anno. L'ultima volta che sono stata a Milano ho visto Brian. L'ultima volta che sono stata a Milano c'era ancora qualcosa che adesso pretende di essere lasciato andare. E che non ha a che fare con Brian. Non direttamente, almeno.


Ho sempre pensato di non amare Milano. Perché è arrogante. Perché è ostile. Perché è un cliché.
Ci ho vissuto un anno, nel 2005. E ho finito col ritagliarmi una mia nicchia al suo interno. I miei percorsi. I miei rifugi. Ho finito con il legarmi a questa città con troppe scritte sui muri e troppi pochi alberi. Anche se ho realizzato la profondità di questo legame solo a distanza di anni. L'ho realizzata tornandoci l'anno scorso e rendendomi conto che mi era mancata. Che ritrovavo luci e strade che mi erano famigliari. Che ero contenta di ritrovarli. Che, in un certo senso, era un po' come ritornare in un pezzo di casa. Forse è stato perché l'anno che ci ho vissuto è stato un periodo di fuga. Un anno in cui il fatto che Milano per me fosse nuova e priva di ricordi mi ha tirato fuori dalle macerie di posti che di ricordi ne avevano anche troppi. Sicuramente questo aspetto ha avuto il suo peso. Non c'è niente di meglio di un posto senza passato quando il passato ti sta dando una caccia spietata.


E poi, più passa il tempo, più i collegamenti diventano chiari. La visione si allarga e il quadro d'insieme comincia ad acquistare forse non un senso, ma comunque una sua armonia. Ci sono infiniti legami tra gli eventi. Solo, nella maggior parte dei casi, non ce ne accorgiamo.


Sono ritornata a Milano per vedere Brian. Il che, visto in prospettiva, è stato un po' come ammettere questa città nel territorio di competenza del mio passato. Pezzi di tempi e di vita che collidono, si mescolano, si fondono. Qualcosa che lega indissolubilmente. Quel genere di cose che fanno dire alla gente "era destino". Era destino che incontrassi Brian proprio lì e proprio nelle condizioni in cui l'ho incontrato? Non lo so. Ma il tutto ha una sua logica perversa. 


Perché quello di cui continuo a non parlare è la bolla che si è creata in quei due giorni. Una bolla che ormai è esplosa, con tutto quello che si è portata dietro e con il tonfo colossale del mio culo che si è schiantato a terra, ma che, di fatto, è rimasta lì.
Congelata in due giorni grigi di un settembre qualsiasi a Milano.
Due giorni di convergenza.
Di pezzi di passato, presente e futuro che per un breve momento sono riusciti a coesistere senza bruciare tutto.
Di che cazzo sto parlando?
Sostanzialmente di ricordi.
Di niente.
La cosa buffa è che, di solito, quando penso di essermi esposta troppo, di essere stata troppo esplicita, finisco con lo scoprire di essermi invece nascosta ancora più a fondo.
Immagino che, in parte, dipenda dal fatto che le persone tendono a vedere prevalentemente se stesse nelle parole degli altri. E difficilmente riescono ad ascoltare una storia per quello che è.
E in ogni caso, le poche persone che potrebbero davvero decifrare tutti i riferimenti non credo che passeranno da qui.
Ma le storie rimangono attaccate alle ossa, alla pelle, alla carne. Così come i ricordi. E le persone.
E arriva il momento di lasciarle andare, prima che divorino tutto.
Tra un mese esatto tornerò a Milano.
Ci tornerò per il concerto dei Placebo.
Ci tornerò per Brian. Sostanzialmente.
E ci tornerò per la prima volta dopo l'esplosione.
Sarà il mio primo tour tra le macerie di quello che è bruciato da settembre ad oggi.
Ci tornerò da sola ma è una cosa che devo fare per poter andare avanti.

Ci tornerò da sola perché è così che si affrontano i fantasmi.
Ci tornerò da sola e sarà un addio. Un requiem per un ricordo che non posso più tenermi.
Forse sarà più facile del previsto. Forse farà male. Forse mi sentirò sollevata. Forse mi sentirò libera come ci si sente solo dopo aver accettato di aver perso qualcosa.
E ancora una volta mi aggrapperò alla voce di Brian come non mi succedeva più da anni.
E ha veramente senso che sia lui a fare da catalizzatore per questa resa dei conti.
E che tutto questo capiti il 22 luglio.
Ancora i collegamenti.
C'è una logica crudele che armonizza le parti discordanti.
Resto ferma. Non posso fare altro che aspettare. Aspettare di essere investita da quello che deve arrivare. Perdono? Rivalsa? Redenzione?
Non lo so.
Non so cosa succederà. Non so se saranno urla o se sarà silenzio.
Ma so che sarà un addio.
E dopo potrò ricominciare.

Fuck what you know. You need to forget about what you know, that's your problem. Forget about what you think you know about life, about friendship, and especially about you and me.
(Fight Club).